Sono passati più di quindici anni dal crollo finanziario del 2008, eppure sembra che i mercati abbiano già dimenticato le lezioni più amare della storia recente. All’epoca, la macchina economica correva alimentata da mutui concessi con leggerezza, prodotti finanziari opachi e soprattutto da una certezza ritenuta indiscutibile: i prezzi immobiliari non sarebbero mai scesi. Oggi qualcosa di simile risuona nell’universo dell’intelligenza artificiale, dove si ripete una nuova formula magica: l’AI crescerà per sempre.
Eppure, dietro la retorica dell’innovazione inarrestabile e dietro capitalizzazioni vertiginose, emergono segnali familiari. La corsa agli investimenti di oggi ricorda da vicino quella di ieri: allora si compravano e rivendevano mutui come fossero lingotti d’oro, oggi startup nate pochi mesi fa attirano capitali miliardari grazie a demo impressionanti e promesse avveniristiche. Se nel 2008 molte famiglie acquistavano case che non potevano permettersi, oggi numerose aziende adottano soluzioni di AI che non sanno integrare né sfruttare. Il risultato è lo stesso: un mercato che cresce più veloce della capacità reale di sostenerlo.
Il parallelo non si ferma qui. Nel 2008 la crescita era sostenuta da una narrativa quasi religiosa: la casa era un investimento sicuro, eterno. Oggi l’intelligenza artificiale è rappresentata come una forza inevitabile e salvifica, destinata a risolvere problemi storici dell’umanità: dal clima alla medicina, dalla produttività alla creatività. I progressi tecnologici sono indiscutibili, e negarlo sarebbe miope. Ma un progresso reale non elimina automaticamente il rischio di euforia collettiva. La storia tecnologica è ricca di rivoluzioni annunciate troppo presto: dal treno a vapore al metaverso, passando per la bolla delle dot-com. In molte occasioni la visione era corretta, ma i tempi erano sbagliati.
Il nodo centrale della questione non è l’utilità potenziale dell’AI, bensì la sua sostenibilità attuale. Nel 2008 il valore finanziario dei titoli subprime superava ampiamente il valore reale degli immobili. Oggi bisogna chiedersi se le valutazioni di molte aziende legate all’AI riflettano davvero la loro capacità di generare valore tangibile, o se dipendano soprattutto dall’aspettativa che lo faranno in futuro. Una tecnologia diventa sostenibile quando è accessibile, scalabile e soprattutto necessaria. Se l’infrastruttura non tiene il ritmo del desiderio, inevitabilmente qualcosa si incrina.
E se questa bolla dovesse scoppiare? Le conseguenze non sarebbero identiche a quelle della crisi del 2008, ma potrebbero comunque risultare profonde. Non ci sarebbero case pignorate, ma server inutilizzati e investimenti bruciati. Non vedremmo famiglie travolte dai debiti, ma imprese e paesi interi dipendere da infrastrutture tecnologiche esterne e difficili da controllare. E proprio come dopo il 2000, quando la bolla internet esplose lasciando macerie, ciò non significherebbe la fine della rivoluzione. Significherebbe soltanto una selezione naturale: sopravviverebbero le soluzioni realmente utili, non quelle gonfiate dall’entusiasmo.
Il paragone con la crisi del 2008 non è un grido d’allarme irrazionale, né un invito al tecnopensiero catastrofista. È piuttosto un segnale di prudenza: ogni volta che una tecnologia viene trattata come una certezza assoluta, anziché come un rischio calcolato, l’equilibrio si spezza. L’intelligenza artificiale potrebbe diventare la più grande rivoluzione economica del secolo, o potrebbe rivelarsi una gigantesca sopravvalutazione temporanea. La differenza non la faranno né i chip né gli algoritmi, ma la capacità umana di distinguere l’innovazione dal miraggio.
Come sempre, non sarà il futuro a darci torto o ragione, ma la memoria.
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