Carbone sul banco degli imputati in tutta Europa: dopo decenni di onorato servizio nella produzione di energia elettrica, la scure della transizione energetica e della lotta ai cambiamenti climatici, sta inesorabilmente lasciando il segno.
L’accordo di Glasgow per ridurre la produzione di energia con carbone
L’Italia è tra i paesi che alla COP26 di Glasgow hanno firmato un accordo per ridurre la produzione di energia elettrica con il carbone, che è il più inquinante dei combustibili fossili e causa grandi emissioni di anidride carbonica (CO2) ma anche di sostanze nocive per la salute. Lo stato italiano in realtà aveva già deciso nel 2019 di smettere di usare centrali a carbone: il Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (PNIEC) parlava infatti del 2025 come limite entro cui dismettere tutte le centrali termoelettriche a carbone, o riconvertirle in centrali a gas naturale.
A oggi poco più del 6 per cento dell’elettricità usata in Italia è prodotta con il carbone. Per fare qualche confronto: in Polonia è il 70 per cento, in Germania il 24, nel Regno Unito circa il 2. Rispetto a dieci anni fa, la percentuale italiana è stata praticamente dimezzata, grazie alla chiusura o alla riconversione di centrali a carbone, ma ce ne sono ancora sette funzionanti: in Liguria, in Veneto, in Friuli Venezia Giulia, nel Lazio, in Sardegna (due) e in Puglia. Cinque sono gestite dall’Enel, tuttora la più grande azienda produttrice di energia elettrica del paese.
Forti critiche rivolte a questi progetti
Alcune riguardano i lavoratori delle centrali, altre l’impatto ambientale delle conversioni in impianti a gas. Per quanto riguarda i lavoratori, il problema è che le centrali a gas hanno bisogno di molta meno manodopera rispetto a quelle a carbone.
Il carbone infatti deve essere trasportato via nave, scaricato e poi movimentato nelle centrali, tutte attività non necessarie se si usa il gas, che è trasportato dai gasdotti. Nel caso della centrale di Civitavecchia, ad esempio, si passerebbe da un migliaio a una quarantina di lavoratori. I sindacati sono dunque preoccupati di ciò che avverrà intorno alle centrali e in tutti i territori coinvolti chiedono rassicurazioni sul destino di chi ci lavora.
L’altro grosso tema su cui si discute a proposito delle centrali a carbone è la loro stessa trasformazione in centrali a gas, osteggiata da amministrazioni locali e associazioni ambientaliste perché continuerebbe a produrre inquinamento e a causare emissioni di gas serra, sebbene in misura minore. Molti chiedono che gli impianti vengano dismessi, e basta.
I benefici economici delle rinnovabili
Se si eliminasse tutto il carbone a livello mondiale, sostituendolo con fonti rinnovabili, si avrebbero benefici economici netti per 78mila miliardi di dollari (78 trilioni di $) entro la fine di questo secolo. Il calcolo è stato fatto dal Fondo monetario internazionale in un recente documento di lavoro, intitolato “The great carbon arbitrage”.
Si tratta ancora una volta di un calcolo sul lunghissimo periodo, ma va detto che gli autori per stimare i costi di realizzazione di nuovi impianti a fonti rinnovabili hanno considerato diversi fattori, tra cui gli investimenti in conto capitale (per una nuova capacità di generazione 50:50 eolica e solare in grado di rimpiazzare quella persa con il carbone), oltre ai risarcimenti alle compagnie fossili in seguito alla chiusura dei loro impianti.
Hanno poi applicato un costo sociale della CO2 pari a 75 $ per tonnellata, in modo da calcolare i benefici di una riduzione delle emissioni, grazie al sempre minore impiego di carbone nel mix energetico. In sostanza, i benefici totali di una uscita globale dal carbone ammontano a 106 trilioni di $, a fronte di costi per nuovi impianti rinnovabili e risarcimenti alle società fossili pari a 29 trilioni, da cui la stima del vantaggio economico netto di quasi 78 trilioni di $ al 2100.
Eliminare il carbone: urgenza climatica ed economica
Il succo dello studio è che eliminare il carbone con le rinnovabili non è solo urgente dal punto di vista climatico, al fine di rispettare gli accordi di Parigi per contenere il surriscaldamento globale a +1,5 °C, ma anche molto conveniente sotto il profilo economico, al netto dei costi della transizione energetica pulita.
Sostituire tutta la produzione elettrica da carbone è fondamentale, ma non possiamo non evidenziare che entro la fine del secolo dovremmo aver fatto a meno, a già da parecchi decenni, anche di gas e petrolio.
Il piano del Governo
Con i flussi di gas russo che si assottigliano giorno dopo giorno la gran parte dei governi europei sta mettendo a punto piani di emergenza per contingentare i consumi. In particolare gli stati più dipendenti dalle forniture russe, vale a dire Germania, Italia ed Austria. Uno stop completo ai flussi da Mosca avrebbe comunque ricadute a cascata sugli equilibri energetici dell’intera Europa. Il prossimo 26 luglio si terrà il vertice di emergenza dei ministri dell’Energia dell’Unione europea, in cui si cercherà anche di coordinare le azioni per far fronte agli scenari peggiori. Come scrive Repubblica, il piano del governo prevede “una serie di interventi che vanno dal “razionamento” del gas alle industrie energivore al maggior utilizzo delle centrali a carbone per la produzione di elettricità. Ma anche l’introduzione di politiche di austerity dei consumi: riscaldamento più contenuto, risparmi sull’illuminazione pubblica”.
Ma c’è anche il carbone. Gli impianti però stanno già operando per tamponare le mancanze di oggi. E nelle ultime settimane stanno coprendo fino all’8% del fabbisogno di energia elettrica, il doppio della media degli ultimi anni. L’obiettivo è quello di sostituire almeno 5 miliardi di metri cubi di gas.