Acciaierie d'Italia ex Ilva

“Il problema dell’ex Ilva non sono le risorse, ma le autorizzazioni”. Con queste parole il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, ha puntato il dito contro quelle che ha definito “interferenze” provenienti da diversi attori, accusandoli di voler “far fallire il negoziato” per la cessione del gruppo siderurgico. Secondo Urso, queste pressioni non sono nuove, ma parte di una strategia mirata a ostacolare la produzione siderurgica a Taranto, “su commissione di chi auspica da tempo la chiusura dello stabilimento”.

Nel frattempo, la vertenza ex Ilva si conferma uno dei più intricati nodi industriali e ambientali del Paese. L’ultimo confronto tra Governo e sindacati non ha prodotto svolte: permane una forte incertezza sul destino dello stabilimento di Taranto e dell’intera filiera nazionale, con ripercussioni dirette su impianti strategici come quelli di Genova, Novi Ligure e Racconigi.

Per Loris Scarpa, coordinatore nazionale siderurgia della Fiom-Cgil, la situazione richiede una risposta decisa: “Lo Stato deve gestire direttamente l’ex Ilva”. Secondo il sindacato, solo un intervento pubblico strutturale può garantire continuità produttiva, tutela occupazionale e ambientale, e una vera decarbonizzazione del processo industriale.

Il Governo, dal canto suo, ha annunciato un nuovo decreto Ilva, con stanziamenti economici legati all’iter autorizzativo dell’AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) e dell’accordo di programma. Tuttavia, per i sindacati, le misure sono ancora troppo vaghe, mentre migliaia di lavoratori restano in cassa integrazione, senza prospettive concrete.

Sul tavolo resta anche la trattativa con il colosso azero Baku Steel, ma al momento non si registrano sviluppi tangibili. Per la Fiom, ogni ipotesi di vendita è prematura, se non si garantisce prima produzione stabile, sicurezza dei lavoratori e una riconversione ambientale chiara.

Anche Legambiente solleva forti dubbi. L’associazione ecologista accusa il Governo di proporre un piano industriale inefficace, che prevede forni elettrici alimentati a gas e sistemi di cattura della CO₂, da realizzare in un arco temporale di dodici anni. Per Legambiente, si tratta di greenwashing, non di una vera transizione ecologica.

I vecchi altiforni alimentati a carbone, risalenti al secolo scorso, continueranno a operare troppo a lungo, con un impatto stimato tra 1.800 e 2.000 kg di CO₂ per tonnellata d’acciaio, contro i 100-200 kg dei forni elettrici di nuova generazione. Il costo delle sole quote di emissione per una produzione di 4 milioni di tonnellate ammonterebbe a circa 150 milioni di euro annui.

Nel resto d’Europa, intanto, la transizione è già iniziata: sono in costruzione 28 nuovi forni elettrici entro il 2030, per una capacità complessiva di 43 milioni di tonnellate. L’Italia, secondo Legambiente, rimane indietro e non ha nemmeno previsto l’uso dell’idrogeno verde, che rappresenta la chiave della vera decarbonizzazione.

Un modello da seguire è H2Green Steel in Svezia, che dal 2026 produrrà 7 milioni di tonnellate di acciaio annue solo con idrogeno verde. Un approccio radicalmente diverso da quello italiano, che secondo gli ambientalisti non affronta le cause strutturali della crisi tarantina.

Su Taranto continua ad aleggiare l’ombra di una crisi sociale e ambientale. Per sindacati e ambientalisti, l’unica via per disinnescarla è un intervento pubblico strutturato, capace di trasformare una emergenza cronica in un’occasione concreta di rilancio industriale sostenibile.


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