La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 11351 del 29 aprile 2024, ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, affermando la validità della notifica di un avviso di accertamento a un contribuente già dichiarato fallito, in relazione a operazioni bancarie non giustificate effettuate sul suo conto personale dopo la dichiarazione di fallimento.
La vicenda processuale
Il contribuente, fallito insieme alla società in nome collettivo (snc) di cui era parte, aveva impugnato in proprio davanti alla Commissione Tributaria Provinciale (CTP) l’avviso di accertamento con cui l’Agenzia delle Entrate aveva recuperato a tassazione un maggior reddito Irpef, basato su operazioni bancarie ritenute non giustificate effettuate sul suo conto corrente personale dopo il fallimento. La CTP aveva dichiarato nullo l’avviso di accertamento, ritenendo che la notifica doveva essere effettuata al curatore fallimentare, data la presunta mancanza di capacità processuale del fallito.
La Commissione Tributaria Regionale (CTR) aveva confermato questa decisione, sostenendo che, al momento della notifica dell’avviso, il contribuente era già stato dichiarato fallito e che tutti i beni, inclusi quelli acquisiti durante la procedura fallimentare, facevano parte dell’attivo fallimentare. Pertanto, la rappresentanza processuale spettava esclusivamente al curatore.
La pronuncia della Cassazione
L’Agenzia delle Entrate ha portato la questione in Cassazione, contestando la decisione della CTR per aver ritenuto inefficace la notifica dell’avviso al contribuente, escludendo la sua capacità processuale e la possibilità di svolgere attività personale post-fallimento.
La Cassazione ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, chiarendo che l’esercizio di un’attività in proprio da parte del fallito non è precluso, come previsto dall’articolo 46 della vecchia legge fallimentare. Questo articolo specifica che i guadagni derivanti dall’attività del fallito, nei limiti necessari al mantenimento suo e della famiglia, sono esclusi dal fallimento. La Cassazione ha inoltre affermato che l’effetto dello spossessamento del fallito non è totale e non si applica alle posizioni strettamente personali del debitore o a quelle non incluse nel concorso fallimentare.
Ne consegue che, se l’accertamento riguarda redditi generati dall’attività svolta dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento, il fallito ha la legittimazione a impugnare l’atto impositivo. La Cassazione ha quindi stabilito il principio secondo cui, in caso di rapporto d’imposta formatosi dopo la dichiarazione di fallimento, se il contribuente ha continuato a svolgere attività in proprio, egli ha la legittimazione a impugnare l’atto impositivo.
Ulteriori osservazioni
Le Sezioni Unite della Cassazione, nella sentenza n. 11287/2023, hanno chiarito che il fallito ha legittimazione processuale per impugnare l’accertamento fiscale se il curatore rimane inerte, a prescindere dal motivo. Se il curatore non è inattivo, il fallito non è legittimato a impugnare, e il giudice può rilevare d’ufficio il difetto di capacità processuale in ogni stato e grado del procedimento.
I giudici hanno inoltre precisato che il fallito può agire in giudizio su rapporti patrimoniali non inclusi nel fallimento e che l’inerzia del curatore, indipendentemente dalla consapevolezza e volontà che l’abbiano determinata, è sufficiente per legittimare il fallito a impugnare. Tuttavia, se il curatore impugna l’atto impositivo relativo a crediti tributari formatisi prima del fallimento, il fallito non ha interesse a contestare l’omessa notifica dell’avviso di accertamento.
Questa sentenza della Cassazione sottolinea l’importanza di garantire al fallito la possibilità di difendersi contro gli atti impositivi che riguardano attività e redditi generati successivamente alla dichiarazione di fallimento, rafforzando così la tutela dei diritti del contribuente in situazioni di insolvenza.
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