Stretto di Horzmut

 Negli ultimi giorni abbiamo assistito a una impetuosa escalation nel confronto tra Iran e Israele. Lo stato d’ Israele ha colpito obiettivi in territorio iraniano, sostenendo di voler fermare l’avanzamento del programma nucleare di Teheran, nonostante l’Iran abbia negato qualsiasi intenzione di costruire un’arma atomica.

Le ripercussioni sull’economia globale sono e saranno devastanti.
Uno dei punti più citati dai media internazionali è lo Stretto di Hormuz, passaggio marittimo fondamentale che si trova oggi al centro di questa crisi. L’Iran ha più volte minacciato di bloccarlo, facendo leva sul suo controllo geografico e strategico della zona.

È bene chiarirlo: in geopolitica ogni attore gioca le carte che ha. Israele presenta l’Iran come una minaccia globale per rafforzare l’appoggio dei suoi alleati. L’Iran, dal canto suo, punta tutto sullo strumento “Hormuz”.

Ma perché lo Stretto di Hormuz è così cruciale, e perché anche solo la minaccia di una sua chiusura spaventa tanto i mercati?
Lo Stretto collega il Golfo Persico al Golfo di Oman, quindi al Mar Arabico. È lungo 167 km e, nel punto più stretto, largo appena 30 km. Ogni giorno transita da lì circa il 20% del petrolio mondiale e oltre il 30% del gas naturale liquefatto (GNL). Una vera e propria arteria energetica globale. L’Iran controlla la sponda settentrionale e possiede basi militari su diverse isole
circostanti, usando questa posizione come leva politica contro Stati Uniti, Israele e i loro alleati.

Dall’altra parte, la 5ª Flotta statunitense, dislocata in Bahrain, assicura una sorveglianza costante e la libertà di navigazione non solo nello Stretto ma anche nel Mar Rosso, dove gli attacchi degli Houthi rappresentano oggi una delle principali minacce al traffico marittimo internazionale.

Le tensioni esplose dopo il bombardamento israeliano del 13 giugno 2025 e la risposta di Teheran hanno riacceso i riflettori su questa zona delicatissima. Il solo timore di un blocco ha fatto impennare i prezzi del petrolio: il Brent è salito dell’11% nei giorni successivi, registrando il maggiore aumento mensile da tempo. Questi scossoni si riflettono immediatamente sull’economia globale: aumentano i prezzi di benzina, gas ed elettricità, l’inflazione riprende slancio e la fiducia di famiglie e imprese crolla.

In realtà, una chiusura dello Stretto di Hormuz sarebbe plausibile solo in uno scenario estremo, ovvero nel caso in cui l’Iran fosse posta in una condizione disperata. Una mossa simile, infatti, danneggerebbe anche i suoi partner più stretti: la Cina, per esempio, è oggi uno dei principali importatori di petrolio iraniano, parliamo di circa 1,5 milioni di barili al giorno. Se queste forniture venissero meno, Pechino dovrebbe rivolgersi altrove, con costi più elevati e conseguenze a catena sull’inflazione globale.

Non si tratta solo di prezzi più alti, ma della possibilità concreta che, in caso di blocco prolungato, molte economie, già provate dalla crisi energetica europea dovuta al conflitto russo ucraino, possano trovarsi a corto di energia.

Le famiglie e le piccole e medie imprese riuscirebbero a reggere un altro shock di questa portata?
Il legame tra la politica internazionale e la nostra vita quotidiana è stretto. Le tensioni, i conflitti, le destabilizzazioni, non solo portano morte e distruzione nei teatri di guerra ma hanno effetti economici che si ripercuotono sulle vite delle famiglie e delle imprese.

Per scongiurare i peggiori scenari servirebbe una de-escalation del conflitto, un’ipotesi che in questo momento, sembra francamente un miraggio.

di Alessandro Grande

 


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