Qatar2022
Autore: AP/LaPresse

Al via pochi giorni fa i mondiali di calcio in Qatar, sicuramente una delle edizioni più controverse nella storia del rinomato sport. Perfino l’ex presidente della Fifa Sepp Blatter, che aveva rinunciato alla carica per l’accusa – a quanto pare fondata – di selezione fraudolenta della sede della gara, non ha potuto non ammettere che la scelta di tenere i Mondiali di calcio in Qatar “è stata un errore”.

Il mondiale delle polemiche

Ripercorriamo un po’ i punti salienti delle polemiche degli ultimi giorni partendo proprio dall’ultima, minore, querelle: il divieto di bere birra all’interno degli stadi, in totale disaccordo con il contratto multimilionario firmato con Budweiser, che dovrà accontentarsi di vendere la versione analcolica della celebre bevanda.

Il Qatar fa, così, capire che può sì piegarsi agli interessi internazionali, ma continuerà a mantenere saldi i propri usi e costumi. Ed è proprio nella cultura qatarina che ha luogo anche uno dei maggiori punti di discussione, quello dei diritti umani. In Qatar, infatti, l’omosessualità è illegale, punibile con il carcere, e Human Rights Watch ha denunciato arresti e maltrattamenti ai danni della comunità Lgbt+.

Si commenta da sola la frase di Khalid Salman, ambasciatore del Mondiale, alla tv tedesca Zdf: “L’omosessualità? È haram (cioè vietata dalla fede islamica) perché è un disturbo della mente”. Il mondo ha reagito e diverse nazionali e nazioni hanno protestato: molte città francesi, Parigi compresa, non hanno installato i consueti maxischermi in piazza; i giocatori della squadra dell’Australia hanno criticato con un video le leggi anti-gay; molti capitani hanno deciso di scendere in campo con la fascia arcobaleno, nonostante il divieto, a pena di squalifica.

I diritti umani

Altra declinazione del tema dei diritti umani è quello delle condizioni a cui hanno lavorato gli operai coinvolti nella costruzione delle importanti opere infrastrutturali necessarie per l’evento. Si tratta di oltre 200 miliardi di dollari che sono stati investiti per la realizzazione di 6 stadi, un aeroporto, un sistema metropolitano, strade e un centinaio di hotel. Tutto questo è stato fatto in soli 12 anni, grazie allo sforzo di 30mila operai arrivati da Bangladesh, India, Nepal e Filippine.

Le denunce da parte delle organizzazioni umanitarie non sono tardate ad arrivare: nel 2016 Amnesty International porta alla luce le difficili condizioni di vita dei lavoratori e nel 2021 Human Rights Watch apre gli occhi al mondo sul sistema della “kafala”, una particolare sponsorizzazione da parte del datore di lavoro che impediva agli operai di lasciare il Paese senza la sua approvazione, forzandoli ad una sorta di schiavitù di fatto, con ritmi lavorativi insostenibili (turni di 18 ore al giorno) e paghe irrisorie. Il risultato sono stati 6500 morti sul lavoro secondo quanto riportato dal Guardian, anche se il governo del Qatar ha attribuito la maggior parte dei decessi a cause naturali.

Impatto ambientale

In più, c’è la querelle sull’impatto ambientale. Nonostante, proprio per le condizioni metereologiche dell’area, i mondiali siano stati posticipati all’autunno – anche questo elemento motivo di polemica tra gli amanti dello sport – le temperature in Qatar sono piuttosto alte: si prevede che il necessario ricorso all’aria condizionata – ancora superiore se si pensa che viene utilizzata in stadi open-air – immetterà nell’ambiente emissioni inquinanti pari a quelle che emette l’Islanda in 8 anni. Anche lato logistica, non sono messi meglio: a causa dell’insufficiente possibilità di accoglienza nella città di Doha, sono stati predisposti da Qatar Airways 60 voli al giorno per collegare la capitale qatarina con Dubai, sede di numerose struttura alberghiere più capienti.

Temi forti, che stanno incontrando sempre più proseliti tra tifosi e giocatori, con manifestazioni crescenti di solidarietà e condivisione: la speranza è che, fischiato l’ultimo tempo di recupero, le controversie emerse in questi anni mettano in luce alcuni temi importanti e riescano, almeno in piccola parte, a scalfire alcuni bias culturali purtroppo ancora troppo presenti nei Paesi arabi.

di Serena Lena