Bocciati i due referendum di iniziativa popolare. Cannabis ed eutanasia restano ancora taboo in Italia per ‘quesiti mal formulati’ secondo la Corte di Cassazione che, invece, ha ammesso cinque dei sei referendum proposti dalle Regioni in materia di giustizia.
Oltre un milione e ottocentomila firme, tra raccolta digitale e tradizionale, sono state spazzate via nonostante la raccomandazione del neo presidente della Corte, Giuliano Amato.
“Dobbiamo impegnarci al massimo per consentire, il più possibile il voto popolare. È banale dirlo, ma i referendum sono una cosa molto seria e perciò bisogna evitare di cercare a ogni costo il pelo nell’uovo per buttarli nel cestino” aveva esortato pochi giorni prima della pronuncia Amato.
Autocoltivazione della cannabis: il quesito
La proposta sottoscritta da oltre seicentomila cittadini chiedeva la modifica dell’art. 73 del testo unico sugli stupefacenti. Al primo comma recita: “Chiunque, senza l’autorizzazione di cui all’articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella I prevista dall’articolo 14, è punito con la reclusione da sei a venti anni e con la multa da euro 26.000 a euro 260.000”.
La modifica richiesta dal quesito referendario riguardava la cancellazione della sola parola “coltiva”, oltre alla cancellazione della reclusione dai 2 ai 6 anni sancita dal comma 4. Infine cancellava la norma (all’articolo 75 della legge) che prevede la “sospensione della patente di guida, del certificato di abilitazione professionale per la guida di motoveicoli e del certificato di idoneità alla guida di ciclomotori o divieto di conseguirli per un periodo fino a tre anni”.
Referendum cannabis: le ragioni del “no” della Corte Costituzionale
La Corte Costituzionale ha bocciato il referendum sulla cannabis perché il quesito così formulato avrebbe avuto effetti anche sulla droghe pesanti. Questa è la motivazione data dal presidente della Consulta Giuliano Amato ieri sera. “Il quesito – ha dichiarato – è articolato in 3 sotto quesiti. Il primo relativo all’articolo 73 comma 1 della legge sulla droga prevede che scompaia tra le attività penalmente punite la coltivazione delle sostanze stupefacenti di cui alle tabelle 1 e 3, quelle che includono il papavero, la coca, le cosiddette droghe pesanti, mentre la cannabis è alla tabella 2. E questo ci ha portato a constatare l’inidoneità dello scopo perseguito”.
I promotori: “Non c’erano altri modi, travisato il nostro intento”
Leonardo Fiorentini, segretario del Forum Droghe, membro del Comitato promotore del referendum, ha spiegato oggi in un’intervista a Repubblica che “il comma 1 dell’articolo 73 della legge sulle droghe enumera le condotte passibili di pene detentive relative alle tabelle 1 e 3, quelle in cui sono elencate anche l’oppio o la coca. Peccato però che il comma 4, in cui si parla delle tabelle 2 e 4, ovvero quelle che citano la cannabis, facciano riferimento proprio alle condotte del comma 1. L’unico modo per rendere penalmente irrilevante la coltivazione a uso personale della cannabis era intervenire anche sul primo comma, lasciando però intatte le pene per tutte le altre condotte”. Ma poi aggiunge che il ragionamento della Corte è giusto: “Noi lo abbiamo sempre detto che il quesito depenalizzava la coltivazione di tutte le piante, senza però intervenire sulle pene per le altre condotte a fini di spaccio come la detenzione e la fabbricazione”.
Argomentando però che la coltivazione in Italia è un problema secondario: “Le piante di coca, per questioni climatiche, non crescono in Italia e non risultano sequestri. Cosa che invece accade per il papavero. Entrambe però, come è ben noto e al contrario della marijuana che è pronta per il consumo, necessitano di complicati processi di raffinazione per diventare eroina e cocaina”