Greenwashing

Nelle pagelle del 2022, 18 brand passano il test di greenwashing. A bocciarli all’esame sulla sostenibilità sono i “prof” di Eco Business, media indipendente di Singapore.

Cos’è?

Per greenwashing si intende la promozione di iniziative che sembrano ecosostenibili ma non lo sono. Come ha fatto, tra gli altri, il gruppo bancario HSBC, tredicesima banca al mondo per investimenti nei combustibili fossili, che però pubblicizzava il proprio impegno nella piantumazione di alberi. O come Michelin, che voleva rimediare al disboscamento illegale in Indonesia ripiantando alberi per produrre una gomma naturale ecologica: una monocoltura sita proprio dove Royal Lestari Utama, partner locale dell’azienda, aveva raso al suolo migliaia di ettari di foresta.

Alcuni esempi

Nel mirino, tra i più noti al pubblico, anche DBS, Big Oil, H&M. Ma non sono i soli. Accusati persino i Coldplay, nelle intenzioni molto impegnati, al punto che con il loro tour “Music of the Spheres” puntavano a ridurre del 50% le emissioni rispetto ai loro ultimi spettacoli. Per farlo, una pista da ballo in grado di convertire i movimenti della folla in energia, ma anche una discussa partnership con un’azienda petrolifera finlandese. Neste si vanta di essere la principale produttrice mondiale di biocarburante. Questo avrebbe dovuto ridurre l’impatto dei voli effettuati dalla band. Ma uno studio di Friends of Earth Netherlands parla di “lato oscuro” dell’azienda, denunciando che l’olio di palma utilizzato da Neste per il biocarburante ha già visto almeno diecimila ettari di foresta abbattuti dal 2019.

Il mondo dello sport

Il mondo dello sport non è da meno, come dimostrato dai Mondiali in Qatar. Pubblicizzato come il primo della storia ad essere “carbon neutral”, in realtà “trucca” il risultato: nel conteggio delle emissioni mancano molte voci, come la quantità di CO2 per l’installazione di stadi e strutture necessarie alle competizioni. 

Eco Business non risparmia neanche WWF Singapore, per aver sostenuto la possibilità di estrarre energia pulita dalla pirolisi: il riscaldamento della plastica proveniente dai rifiuti da loro raccolti sulle spiagge. Presto smentiti dal responsabile della campagna per il clima e l’energia pulita di Global Alliance for Incinerator Alternatives, organizzazione no-profit, secondo cui non è possibile produrre energia pulita da un materiale tossico come la plastica, di origine fossile.

L’evoluzione del fenomeno

Cadere nella trappola del greenwashing è facile, sia per i consumatori che per alcune aziende. Perciò attenzione: questa tecnica di marketing potrà anche pagare sul breve periodo, ma denuncia scarsa visione di prospettiva. Se oggi la sensibilità al tema sta crescendo, domani potrebbe non essere più una scelta. 

I cambiamenti climatici non sono più solo previsioni apocalittiche di esperti allarmisti, ma alluvioni, crisi idriche, sconvolgimenti agricoli. Sono case distrutte, migrazioni forzate, morti. Rispondere all’ecoansia con false politiche green ha una sola vera conseguenza per le imprese: la perdita di credibilità. E se al momento il fenomeno sembra ancora contenibile, presto potrebbe rivelarsi un serio autosabotaggio anche per i brand attualmente più affermati. Non parliamo solo di ambiente, ma anche di economia. 

Un pubblico consapevole è un pubblico che sceglie, che non si lascia guidare ma guida, imponendo così una precisa direzione al mercato. Il “lavaggio” green non basta più a ripulirsi l’immagine: alle aziende servono azioni concrete, incisive, e una politica che sappia incentivare economie circolari, anziché il circolare di finte campagne che, spesso, la stessa politica porta avanti.

 

Di Fabiana Stornaiuolo